Cristo, pietà
“Venezia, 9 e 10 novembre 1561.
Mi ero assopito. Ero sprofondato in quel sonno torbido, malato, che i prigionieri conoscono bene: somiglia a una tenda bucata, che lascia filtrare qualche lampo di luce e arruffati frammenti di discorsi.”
Ambientato nell’Anno Domini 1561 in una Venezia ancor più crepuscolare, fra giorni di luce accecante e tempeste notturne, quasi a dimostrare l’ira di Dio per la totale assenza di pietà negli uomini, Christe eleison è un racconto di straordinaria bellezza che conferma ancora una volta lo straordinario talento della sua autrice Fiorella Borin.
E’ una narrazione che prende spunto da un fatto realmente accaduto e precisamente l’esecuzione, avvenuta il 10 novembre 1561 in piazza San Marco, di padre G. Pietro Leon da Valcamonica, giudicato colpevole di aver intrattenuto relazioni sessuali con una ventina di monache e di averne affogato i figli neonati. Fu un rito particolarmente atroce, poiché non bastarono trenate colpi di maglio infertigli dal boia sul collo e così fu necessario togliergli la vita sgozzandolo con un pugnale.
Su questo crudele fatto poi la Borin elabora una storia di fantasia che va oltre quella data e che è uno straordinario invito agli uomini a riflettere, affinché in loro ritorni quella straordinaria virtù che è la pietà.
La scrittura, come al solito, è particolarmente avvincente, coinvolge piano piano fino a rendere il lettore presente ai fatti, un’ombra impotente di fronte al quale scorrono le miserie umane, i fallimenti del pensiero e dell’insegnamento cristiano, ridotti ad accessori di una liturgia che trova, soprattutto, nella morte, la più dolorosa possibile, un senso di onnipotenza da un lato e di disperazione dall’altro.
Così, pur riconoscendo la colpevolezza dell’imputato, nulla giustifica la sua orrenda fine, voluta non dal caso, ma architettata con sottile perfidia dal procuratore di San Marco, che poi finirà con il pagare, e a caro prezzo, questa sua scelleratezza.
In un mondo in cui il popolo gioisce nell’assistere alle esecuzioni con cui il potere rivendica la sua onnipotenza, emergono tuttavia due figure, una monaca e un piccolo orfano, che riscattano l’umanità e lasciano un raggio di sole di speranza in un finale in crescendo e che tocca vertici sublimi.
Il racconto si è aggiudicato il premio Tabula Fati 2009 e penso proprio con ampio e sicuro merito.
Da leggere, senza ombra di dubbio.
Renzo Montagnoli
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&c=&det=8026&valRcc=ZmlvcmVsbGEgYm9yaW4=
Fiorella Borin
I suoi libri per le edizioni TABULA FATI
mercoledì 9 marzo 2011
mercoledì 2 febbraio 2011
Novità: CRHISTE ELEISON (Edizioni Tabula fati)
Venezia, Anno Domini 1561. Il racconto prende le mosse da una delle più atroci condanne a morte realmente eseguite nella Venezia tardo-rinascimentale: quella di padre Leon da Valcamonica, colpevole di avere ingravidato venti monache e di averne affogato i neonati. Poi entrano in scena personaggi di fantasia: il diabolico procuratore di San Marco, una ragazzina curiosa, sei malvagi pescatori, un bimbo affamato e due strane monache, i cui destini si intrecciano in modo imprevedibile fino alla catarsi finale.
La storia, a tratti cupa, dura e sconvolgente, a tratti illuminata da lampi di tenera complicità, apre uno spiraglio su un’epoca in cui il diritto alla vita non era né sacro né intoccabile e, tra beffe crudeli e dubbie esecuzioni capitali, poteva accadere che un uomo valesse più da morto che da vivo.
Fiorella Borin
CHRISTE ELEISON
Racconto Primo classificato al Premio Tabula fati 2009
Copertina di Stefania Scalone
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-213-3]
Pagg. 64 - € 6,00
http://www.edizionitabulafati.it/christeeleison.htm
martedì 1 febbraio 2011
Biobliografia di Fiorella Borin
Nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, Fiorella Borin si è dedicata per qualche anno all’insegnamento di scienze umane e storia negli istituti superiori. Ha collaborato con l’Università di Padova come cultrice della materia; in seguito ha maturato qualche esperienza in seno a piccole case editrici e nelle redazioni di riviste letterarie. Attualmente collabora con un noto settimanale femminile. Da una ventina d’anni si dedica con passione allo studio della storia di Venezia, prediligendo il XVI secolo quale cornice per racconti e romanzi, alcuni dei quali già premiati e pubblicati.
Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica sono presenti in antologie, quotidiani e riviste; il racconto “La tela di Penelope”, vincitore del concorso letterario bandito dal mensile “Vera”, è stato pubblicato sul numero di settembre 1995 con il commento dello scrittore Alberto Bevilacqua, presidente della Giuria.
Grazie ai buoni risultati conseguiti in concorsi letterari che prevedevano la pubblicazione in volume singolo delle opere vincitrici senza contributo da parte dell’autore, ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano 2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Alberto Perdisa, Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il bosco dell’unicorno (Tabula Fati, Chieti 2004), e i brevi romanzi storici Mir i dobro (Montedit, Milano 2005), La sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005), La congiura degli Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007), Il pittore merdazzèr (Tabula Fati, Chieti 2007) e Lo scrivano (Montedit, Milano 2007), ambientati nella Venezia del Cinquecento; La strega e il robivecchi (Tabula Fati, Chieti 2010) e La firma del diavolo (Tabula Fati, Chieti 2010) sono invece ispirati ai processi per stregoneria istruiti a Triora nel 1588.
Ha conseguito un centinaio di primi premi in concorsi letterari nazionali e internazionali, tra cui il Lions Milano Duomo 1993, il Cesare Pavese 1994, il Giorgio La Pira 1995, il Manara Valgimigli 1996, Storie di Donne 1997, l’Antonelli-Castilenti 1998, il Quattro Porte 1999, il Città di Pescara 2000, Voci di Donne, Ma adesso io e Il Prione nel 2001, Dimensione Donna, Idea Donna e Cuore di tenebra nel 2002, Arcangela Todaro-Faranda nel 2003, Filippo Ivaldi, Anna Osti e Orfici-Campana nel 2004, Iannucci-Mazzoleni e La terra dei racconti nel 2005, Filippo Ivaldi, Città di Vico del Gargano e Una piazza un racconto nel 2007. Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Fiur’lini per la narrativa, con premiazione a L’Aia (Olanda).
Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica sono presenti in antologie, quotidiani e riviste; il racconto “La tela di Penelope”, vincitore del concorso letterario bandito dal mensile “Vera”, è stato pubblicato sul numero di settembre 1995 con il commento dello scrittore Alberto Bevilacqua, presidente della Giuria.
Grazie ai buoni risultati conseguiti in concorsi letterari che prevedevano la pubblicazione in volume singolo delle opere vincitrici senza contributo da parte dell’autore, ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano 2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Alberto Perdisa, Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il bosco dell’unicorno (Tabula Fati, Chieti 2004), e i brevi romanzi storici Mir i dobro (Montedit, Milano 2005), La sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005), La congiura degli Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007), Il pittore merdazzèr (Tabula Fati, Chieti 2007) e Lo scrivano (Montedit, Milano 2007), ambientati nella Venezia del Cinquecento; La strega e il robivecchi (Tabula Fati, Chieti 2010) e La firma del diavolo (Tabula Fati, Chieti 2010) sono invece ispirati ai processi per stregoneria istruiti a Triora nel 1588.
Ha conseguito un centinaio di primi premi in concorsi letterari nazionali e internazionali, tra cui il Lions Milano Duomo 1993, il Cesare Pavese 1994, il Giorgio La Pira 1995, il Manara Valgimigli 1996, Storie di Donne 1997, l’Antonelli-Castilenti 1998, il Quattro Porte 1999, il Città di Pescara 2000, Voci di Donne, Ma adesso io e Il Prione nel 2001, Dimensione Donna, Idea Donna e Cuore di tenebra nel 2002, Arcangela Todaro-Faranda nel 2003, Filippo Ivaldi, Anna Osti e Orfici-Campana nel 2004, Iannucci-Mazzoleni e La terra dei racconti nel 2005, Filippo Ivaldi, Città di Vico del Gargano e Una piazza un racconto nel 2007. Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Fiur’lini per la narrativa, con premiazione a L’Aia (Olanda).
martedì 7 dicembre 2010
venerdì 26 novembre 2010
Anticipazione: CHRISTE ELEISON (Edizioni Tabula fati)
Venezia, Anno Domini 1561. Il racconto prende le mosse da una delle più atroci condanne a morte realmente eseguite nella Venezia tardo-rinascimentale: quella di padre Leon da Valcamonica, colpevole di avere ingravidato venti monache e di averne affogato i neonati. Poi entrano in scena personaggi di fantasia: il diabolico procuratore di San Marco, una ragazzina curiosa, sei malvagi pescatori, un bimbo affamato e due strane monache, i cui destini si intrecciano in modo imprevedibile fino alla catarsi finale.
La storia, a tratti cupa, dura e sconvolgente, a tratti illuminata da lampi di tenera complicità, apre uno spiraglio su un’epoca in cui il diritto alla vita non era né sacro né intoccabile e, tra beffe crudeli e dubbie esecuzioni capitali, poteva accadere che un uomo valesse più da morto che da vivo.
La storia, a tratti cupa, dura e sconvolgente, a tratti illuminata da lampi di tenera complicità, apre uno spiraglio su un’epoca in cui il diritto alla vita non era né sacro né intoccabile e, tra beffe crudeli e dubbie esecuzioni capitali, poteva accadere che un uomo valesse più da morto che da vivo.
martedì 23 novembre 2010
Recensione a LA FIRMA DEL DIAVOLO (Stefano Valentini in "La nuova Tribuna Letteraria", n. 100)
Recensione di Stefano Valentini
La Nuova Tribuna Letteraria – Numero Cento, pag. 43
Fiorella Borin
LA FIRMA DEL DIAVOLO
Tabula Fati, Chieti 2010
Siamo nel 1588, in pieno tempo d’Inquisizione e caccia alle streghe, quando «il computo dei roghi era perennemente in difetto: ne mancava sempre uno». La storia comincia con l’incontro tra un cavaliere, travisato per apparire un vagabondo, e un frate, che si trova in viaggio – esorcista inviato dal vescovo di Albenga – per raggiungere un uomo della Chiesa, il commissario Giulio Scribani, particolarmente spietato e compiaciuto del proprio potere di vita e di morte. Sono luoghi risparmiati dalla peste ma non dal sospetto e dalla paura, dovuta non tanto agli ipotetici sortilegi quanto al rischio, concreto, di divenire oggetto d’indagine e di tortura. Il frate muore, cadendo dal suo mulo, e il cavaliere può così assumerne le vesti e l’identità. Il suo intento è soccorrere e scagionare, fingendosi autorevole uomo di Dio, la donna amata, Magdalena Guerra, sotto processo in quei giorni proprio a causa delle sue uscite notturne per incontrarlo: una semplice relazione clandestina, infatti, è stata scambiata dai giudici fanatici e ottusi per un legame carnale con il diavolo. Fin qui la storia è simile ad altre, già da molti narrate, su quell’epoca di superstizione: ma quando il protagonista, interpretando il suo nuovo ruolo, si troverà davanti alla donna amata, la speranza di poterla salvare verrà vanificata dalla confessione di lei, un autentico colpo di scena che trasforma il breve romanzo di Fiorella Borin in una vicenda assolutamente inattesa e originale.
Fiorella Borin denuncia la folle strage di donne innocenti ma, ancor più, dà forma ad una magnifica storia d’amore, delineata dapprima attraverso i pensieri e i ricordi del protagonista e quindi, dopo la morte di Magdalena sul rogo, in un crescendo di sublime intensità, emozionante e coinvolgente oltre ogni dire; fino alla rivelazione conclusiva, intrigante e delicata, tanto semplice quanto sorprendente.
L’autrice, veneziana, è sicuramente – non da oggi, ma da due decenni – una delle migliori narratrici italiane, inspiegabilmente non ancora approdata ai circuiti della grande editoria. Maestra nell’arte del racconto e, come in questo caso, del romanzo breve, dosa con stile perfetto e raffinatissima sensibilità espressiva ironia e amarezza, realismo e meraviglia, acume psicologico e arguzia descrittiva: la commozione che induce nel lettore non sollecita mai un lacrimevole sentimentalismo, ma la sincera compassione e partecipazione alle sorti di personaggi dalle vicende umane uniche e irripetibili. Preferibilmente collocati, e questo libro non fa eccezione, su uno sfondo nel quale caratteri interamente nati dalla fantasia si intrecciano a figure realmente esistite e a luoghi, scenari, circostanze storicamente documentate, con tanto di citazioni da carte e libri d’epoca. Ci creda, chi ancora non la conoscesse, che nessuno in Italia scrive come Fiorella Borin e nessuno dei suoi libri è un libro come gli altri: per noi è ogni volta una gioia leggerla e poterne tessere gli elogi, perché pochissimi quanto lei li meritano.
Stefano Valentini *
* Direttore de “La Nuova Tribuna Letteraria”
venerdì 28 maggio 2010
Intervista di Renzo Montagnoli a Fiorella Borin
Sei una scrittrice piuttosto prolifica, con un’attitudine particolare per il genere fantastico e per la narrativa di ambientazione storica. Rientra in quest’ultima branchia La firma del diavolo, che trae spunto da fatti effettivamente accaduti a Triora nel 1588. Come mai questa passione per i processi per stregoneria e in particolare per quanto accaduto in quell’anno nel paesino ligure dell’entroterra di Ventimiglia?
Una ventina di anni fa trovai un libro che mi colpì moltissimo fin dal titolo: “Strix”. Ne era autore Claudio Bondì e il testo era integrato da una splendida prefazione di Elena Gianini Belotti. Questo saggio conteneva l’agghiacciante resoconto di sei processi per stregoneria istruiti dall’Inquisizione contro altrettante donne, nell’Italia fra il XIV e il XVI secolo. La lettura era resa ancora più intensa e drammatica da alcuni estratti degli atti processuali, nei quali “risuonava” la vera voce di quelle sventurate. Era una voce straziante, che sentii echeggiare a lungo in me. Soprattutto quella di Franchetta Borelli, processata a Triora nel 1588 e forse scampata al rogo dopo avere patito tormenti indicibili. Provai per quella donna qualcosa di simile a un sentimento di affetto che andava oltre alla solidarietà, alla commozione e al rispetto dovuti a una qualsiasi vittima della crudeltà umana.
A questo libro seguirono altre letture sul tema stregoneria; ma per quanto leggessi e studiassi altri casi e altri processi, Franchetta Borelli mi era rimasta dentro con un’intensità speciale. E così mi venne voglia di scrivere una storia che raccontasse, in forma molto romanzata, la Triora di quegli anni sciagurati, perché non andassero dimenticate le sofferenze di tante donne colpevoli solo di essere nate femmine in un’epoca in cui la donna era considerata costituzionalmente infida, bugiarda, tentatrice, incline alla lussuria e all’asservimento al diavolo.
Nel libro viene giustamente dato risalto a un personaggio esistito veramente e parte attiva nei procedimenti contro le presunte streghe di Triora. Mi riferisco al commissario Giulio Scribani, che poi venne sollevato dall’incarico per gli eccessi da lui compiuti, venne addirittura anche processato, finendo poi assolto.
Secondo te, che cosa si celava dietro la maschera di questo essere crudele, cioè che cosa lo muoveva a comportarsi in modo così terribile?
Non è facile rispondere. Dai verbali dei processi emerge il ritratto di un uomo sadico e misogino; ma il suo fanatismo religioso, la sua intransigenza, gli eccessi cui si abbandona, mi spingono a pensare che fosse un uomo non particolarmente intelligente.
Giulio Scribani aveva studiato i testi più accreditati dagli Inquisitori e andava fiero della sua preparazione in materia di stregoneria. Era acriticamente imbevuto della peggiore e più deleteria cultura dell’epoca. Non mi è mai sembrato illuminato dalla luce salvifica del dubbio, meno che mai quando il dubbio poteva condurre al proscioglimento dell’accusata; e ben lo aveva capito la povera Franchetta Borelli, quando disse, tra i tormenti: “Io stringo li denti e diranno che rido”. Sapeva che il commissario avrebbe visto nelle sue mascelle contratte non la sofferenza di un’innocente, ma il ghigno beffardo di una vera strega.
Perché Scribani era così spietato? Forse era sinceramente convinto di agire secondo la volontà di Dio e per il bene della comunità. Ma non è escluso che lui si mostrasse così solerte per fare bella figura agli occhi dei suoi superiori: del doge, per esempio, al quale in una lettera rammentava che le spese per i processi contro le streghe trioresi sarebbero state ampiamente compensate dalle confische dei beni che ne sarebbero conseguite; o del terribile giudice Pietro Allaria-Caracciolo che avrebbe messo volentieri sotto tortura chiunque, e a oltranza, rammaricandosi vivamente che le leggi non glielo consentissero.
Secondo me Scribani era figlio e servo di quel periodo storico: un servo fedele il giusto e stupido il giusto. La sua caduta in disgrazia, il conseguente processo e la successiva assoluzione mi hanno fatto pensare che sia stato usato come capro espiatorio al posto di qualcuno che aveva responsabilità maggiori delle sue, ma anche un prestigio e un potere di gran lunga superiori, e pertanto era intoccabile.
Resta comunque un fatto e cioè che il fanatismo religioso va sempre ben oltre i propositi della fede. Peraltro i processi alle streghe non sono monopolio solo del cattolicesimo, ma sono fioriti anche nel protestantesimo, il che mi induce a pensare che la religione sia solo un pretesto per permettere a uomini tutto sommato deboli di sfogare su altri il loro astio e rancore. In questo libro quasi tutti i personaggi citati sono realmente esistiti, mentre è sicuramente di fantasia il protagonista, innamorato di Magdalena e che cerca di salvarle la vita. Quest’uomo, già condottiero, si batte in uno scontro che già sa perso in partenza, perché conscio che non vi sono armi contro l’ignoranza e la superstizione. E’ pienamente positivo, un precursore per l’epoca, perché sostiene la valenza del dubbio per poter credere, rifiuta il dogma e apre il suo cuore all’amore. Mi chiedo solo perché non ha cercato di usare la forza per liberare Magdalena, lui che valente soldato avrebbe potuto uccidere le poche guardie e aprire le porte della prigione. Ma forse il motivo per cui non l’ha fatto risiede nella complessità di una mente che, benché aperta, crede che esistano le streghe e quindi ha remore di carattere morale che gli impediscono di staccare di netto la testa del serpente con un colpo di spada. E’ così?
In realtà, quando architetta il piano, il mio protagonista è quasi sicuro di vincere: tutti i successi conseguiti nella carriera delle armi lo spingono a credere che anche questa volta avrà la meglio sui “nemici”. Ma questa battaglia vuole combatterla in modo diverso dal solito. Confida molto nella propria astuzia, esattamente come un tempo confidava nella forza della sua spada. Il precipitare degli eventi lo coglie impreparato, lo sgomenta, lo annichilisce. Vede crollare il suo castello di certezze e si scopre vigliacco, inetto: uno sciocco presuntuoso che ha sbagliato tutto. E per la prima volta in vita sua sperimenta il tormento del dubbio e il peso del senso di colpa.
Dici, giustamente, che se avesse adottato la strategia della forza, l’eroe avrebbe potuto salvare la donna amata. Hai ragione. Ma ne sarebbe uscito un libro diverso: un romanzo d’avventura, magari con un bel finale rosa già visto mille volte al cinema. Io invece volevo scrivere un libro sul dolore e sull’amore, ma soprattutto sulla sofferenza che porta la psiche a deragliare, e la accompagna nel tunnel di una quieta, malinconica, consolatoria follia.
E’ vero, ma il cavaliere ha osato sfidare l’irrazionale con la logica, in un dialogo che la controparte non poteva recepire, perché la sicurezza, l’assenza di dubbi è propria di chi non ragiona. Mi viene in mente, al riguardo, una frase di Zenone, il protagonista di L’opera al nero, di Marguerite Yourcenar: “Non esiste accomodamento durevole tra coloro che cercano, pensano, analizzano e si onorano di pensare domani diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto.” Contro simili esseri si può vincere solo con la forza. Comprendo comunque e anche approvo il tuo desiderio di non scrivere un romanzo d’avventure, con il classico lieto fine in cui tutti vissero felici e contenti. Fra l’altro, questo amore che cresce nell’imminenza del pericolo è descritto in modo magistrale, con l’ansia, l’angoscia, la delusione e la disperazione di chi avverte che la propria sconfitta è soprattutto la condanna di una innocente. Sono pagine molto belle, che non muovono alla commozione facile, ma che segnano in profondità il lettore tanto paiono realistiche e in fin dei conti somiglianti a pene d’amore magari avvertite in gioventù. Lì il romanzo si stacca dalla storia dello specifico evento per assurgere a un sentimento universale, a ciò che l’uomo ha sempre provato e si spera continuerà a provare. Fra i personaggi del libro ce n’è qualcuno in cui ti sei maggiormente ritrovata e se sì per quale motivo?
Mentre il romanzo prendeva forma, mi accorgevo di voler bene a tutte queste mie creature immaginarie, ad esclusione ovviamente del commissario Scribani. A tutti i personaggi ho dato qualcosa di mio, distribuendo con prodigalità i miei difetti e le mie debolezze, ma ricordandomi di mettere ogni tanto un tocco gentile, perché anche la dolcezza è nelle mie corde.
Se c’è qualcosa di autobiografico – e penso che in ogni romanzo vi sia – posso dire che mi appartengono in toto i dubbi, lo spavento, il senso di impotenza sperimentati dal protagonista quando crede di avere assistito a un fenomeno soprannaturale. Lo sgomento che lui prova di fronte all’ignoto è il mio smarrimento di fronte a episodi che anche per la scienza moderna sono inspiegabili.
Tornando a cose più lievi, il mio personaggio preferito è il petulante, gioviale, umanissimo notaio Basadonne: miope come una talpa e schietto come un bicchiere di vino, se esistesse davvero ne farei il mio migliore amico.
Ero pressoché sicuro che il tuo preferito fosse il notaio Basadonne, un personaggio che già incontra simpatia con i suoi difetti, acuto osservatore, per quanto miope, onesto e sincero.
Che Scribani non ti fosse simpatico lo si comprende benissimo per come lo descrivi e, considerato che è esistito veramente e così si comportò, è comprensibile questa tua disistima, che è immediata anche nel lettore.
Da buona veneziana, poi, non hai mancato di trovare l’occasione, reale peraltro, per una stoccata al doge di Genova, città marinara tradizionalmente avversaria di Venezia.
Comunque anche il governo della Serenissima può contare su non pochi cadaveri nell’armadio e al riguardo ti chiedo se hai in progetto un romanzo di ambientazione lagunare che prenda spunto da ombre – e ce sono state parecchie – di quella Repubblica.
Nei miei precedenti piccoli romanzi, tutti ambientati nella Serenissima del XVI secolo e in prevalenza ispirati da fatti di cronaca giudiziaria, non sono stata avara di rabbuffi e ceffoni nei confronti di alcuni governanti dell’epoca. Come giustamente dici tu, in laguna ombre e scheletri non mancavano, anzi, abbondavano.
In questi vent’anni ho scritto molto su Venezia: a volte con tenerezza, a volte con rabbia; ma anche quando la mia voce si alzava indignata, in sottofondo una seconda voce veniva a riconciliarmi con la mia città. Così mi veniva voglia di scrivere ancora, e iniziavo la stesura di una nuova storia. Nel cassetto ho tre romanzi “veneziani” pronti per la revisione finale, e un quarto in corso d’opera. So che perseverare è diabolico, ma pur sapendolo, diabolicamente persevero…
Vero, ma ritorniamo al tuo libro per una domanda semplice, ma di non facile risposta. Cosa ne pensi dei rapporti tra stregoneria e religione? In particolare, le streghe sono state l’invenzione di una struttura ecclesiastica che aveva difficoltà a presentarsi decentemente ai suoi fedeli, viziata com’era da tanti peccati al punto di distogliere l’attenzione dagli stessi, balenando un pericolo concreto che fosse di gran lunga più temibile del proprio comportamento?
Anche questa è una domanda difficile. Trovo molto interessante e senza dubbio plausibile la tua ipotesi.
Riguardo al rapporto tra stregoneria e religione, penso che oggi possano credere alle streghe (al malocchio, all’efficacia dei riti woo-doo, alle messe nere ecc.) anche persone dichiaratamente atee. Invece le cose andavano diversamente all’epoca dei fatti narrati nel mio romanzo.
A quei tempi la vita religiosa permeava tantissimo la società: processioni, penitenze, ben precisi divieti alimentari e sessuali, l’obbligo di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno, danno l’idea di quanto fosse forte il potere della Chiesa e il timore della collera divina. Bestemmia, eresia, sodomia e usura erano considerati i reati più sgraditi a Dio e di norma venivano puniti con la pena capitale. Nel “Malleus maleficarum”, il terribile manuale usato dagli inquisitori, si affermava che era eresia non credere alle streghe. Così tutti, per non figurare eretici, dovevano per forza credere alle streghe. E le streghe erano il capro espiatorio ideale per spiegare eventi incomprensibili: siccità, carestie, nascita di animali deformi, malattie, morti di bambini… Tutte le spiegazioni che oggi ci dà la scienza, all’epoca venivano date dalla religione, dall’astrologia, dalla filosofia e da credenze fantasiose e superstiziose.
Per i cristiani Dio è il Bene e il Diavolo è il Male; se si crea una disarmonia da cui consegue una sofferenza per la collettività, è perché il Diavolo sta facendo proseliti e Dio è in collera con noi per questo motivo. Bruciando le streghe (blasfeme serve e concubine del diavolo), si ristabiliva l’iniziale armonia. In linea di massima, la gente era ben contenta di veder accendere i roghi purificatori, tant’è che processi contro le streghe vennero istruiti non solo da tribunali ecclesiastici, ma anche da tribunali civili, e in certi casi si mosse direttamente la stessa collettività, organizzando spontaneamente l’uccisione della strega. L’eliminazione del “diverso, strano, malefico, pazzo o demente che fosse” era accolta non solo con sollievo, ma con gioia. Chiedo scusa se ho semplificato e generalizzato per motivi di brevità.
A Triora inizialmente i processi contro le streghe suscitarono l’approvazione della comunità; quando però la catena di delazioni si allungò in modo spropositato e vennero fatti i nomi anche delle donne ricche e nobili che fino a quel momento si erano ritenute intoccabili, cominciò a serpeggiare il panico. Da qui, la lettera di protesta scritta dai Tre Anziani di Triora al doge di Genova, nella quale si lamentavano del fatto che più di duecento persone fossero già state denunziate e altre lo sarebbero state a breve.
In questo clima di paura, incertezza e reciproco sospetto, prende avvio il mio romanzo.
Mi viene da sorridere quando penso che Dio è il Bene, l’apoteosi della bontà, e poi invece gli uomini lo trasformano in un essere vendicativo, collerico, a loro immagine e somiglianza.
Siamo alla fine dell’intervista con una domanda semplicissima, ma che spesso mette in difficoltà chi deve rispondere. Abbiamo parlato diffusamente di questo tuo bel romanzo, abbiamo messo in luce le sue origini storiche, abbiamo perfino indagato sulla psicologia dei suoi personaggi. Eppure accade sempre che l’intervistato speri sempre che gli venga rivolta una particolare domanda, a cui tiene tanto, ma questa non viene mai. Ti chiedo allora qual è quella domanda che tanto avresti desiderato ti fosse rivolta e nel contempo ti prego di fornirmi la risposta.
Premesso che le domande mi agitano sempre, approfitto di questo spazio per chiarire un punto che mi sta molto a cuore. La domanda non più desiderata, ma più temuta, potrebbe essere questa: che cosa è stato facile e cosa difficile nella stesura del romanzo?
Facilissimo è stato creare la trama, i personaggi, il clima emotivo e il finale.
Ben più difficile è stato impormi di essere rigorosa da un punto di vista storico, giuridico, psicologico e geografico. Così mi sono trovata a un bivio: lasciare il mio racconto libero di muoversi in piena autonomia, come lo avevo sentito crescere in me, oppure mutilarlo, appiattirlo, incanalarlo nella direzione dell’assoluta fedeltà alla Storia? Ho scelto la prima opzione e mi sono concessa qualche licenza. La più macroscopica è avere volutamente esagerato il computo dei roghi accesi a Triora. Va detto che le notizie al riguardo non sono né chiare né esaurienti: è vero che furono centinaia le persone inquisite; è vero che alcune donne morirono in seguito alle torture o in un tentativo di evasione; è vero che di molte altre derelitte si ignora la sorte; ma non esistono prove che a Triora siano stati accesi roghi. Eppure, le leggende parlano di donne arse vive alla Cabotina o in piazza della Collegiata…
Sia pure con qualche titubanza, ho scelto di dare credito a queste leggende. E non solo per la mia innata passione per la cultura popolare, ma anche alla luce del fatto che spesso, alcuni anni dopo una condanna per stregoneria, i familiari chiedevano che gli atti venissero distrutti per non gettare ombre infamanti sulla loro discendenza. In altri casi erano gli archivi a finire, casualmente o deliberatamente, incendiati.
Dunque, piene certezze al riguardo non ne esistono.
Ringrazio Renzo per la generosità e la gentilezza con cui mi ha ospitata, e tutti voi per il tempo che mi avete dedicato.
E’ stata una bella conversazione e Fiorella Borin non si è sottratta a domande anche insidiose, comportamento più che giusto visto che si è parlato di questo suo libro che, ripeto, per me è veramente stupendo. Al riguardo vi prego di leggere anche la mia recensione dalla quale spero possiate comprendere l’interesse che suscita La firma del diavolo.
Grazie Fiorella e arrivederci al tuo prossimo libro.
La firma del diavolo
di Fiorella Borin
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa romanzo
Collana Malacandra
Pagg. 136
ISBN 978-88-7475-182-2
Prezzo € 9,00
Una ventina di anni fa trovai un libro che mi colpì moltissimo fin dal titolo: “Strix”. Ne era autore Claudio Bondì e il testo era integrato da una splendida prefazione di Elena Gianini Belotti. Questo saggio conteneva l’agghiacciante resoconto di sei processi per stregoneria istruiti dall’Inquisizione contro altrettante donne, nell’Italia fra il XIV e il XVI secolo. La lettura era resa ancora più intensa e drammatica da alcuni estratti degli atti processuali, nei quali “risuonava” la vera voce di quelle sventurate. Era una voce straziante, che sentii echeggiare a lungo in me. Soprattutto quella di Franchetta Borelli, processata a Triora nel 1588 e forse scampata al rogo dopo avere patito tormenti indicibili. Provai per quella donna qualcosa di simile a un sentimento di affetto che andava oltre alla solidarietà, alla commozione e al rispetto dovuti a una qualsiasi vittima della crudeltà umana.
A questo libro seguirono altre letture sul tema stregoneria; ma per quanto leggessi e studiassi altri casi e altri processi, Franchetta Borelli mi era rimasta dentro con un’intensità speciale. E così mi venne voglia di scrivere una storia che raccontasse, in forma molto romanzata, la Triora di quegli anni sciagurati, perché non andassero dimenticate le sofferenze di tante donne colpevoli solo di essere nate femmine in un’epoca in cui la donna era considerata costituzionalmente infida, bugiarda, tentatrice, incline alla lussuria e all’asservimento al diavolo.
Nel libro viene giustamente dato risalto a un personaggio esistito veramente e parte attiva nei procedimenti contro le presunte streghe di Triora. Mi riferisco al commissario Giulio Scribani, che poi venne sollevato dall’incarico per gli eccessi da lui compiuti, venne addirittura anche processato, finendo poi assolto.
Secondo te, che cosa si celava dietro la maschera di questo essere crudele, cioè che cosa lo muoveva a comportarsi in modo così terribile?
Non è facile rispondere. Dai verbali dei processi emerge il ritratto di un uomo sadico e misogino; ma il suo fanatismo religioso, la sua intransigenza, gli eccessi cui si abbandona, mi spingono a pensare che fosse un uomo non particolarmente intelligente.
Giulio Scribani aveva studiato i testi più accreditati dagli Inquisitori e andava fiero della sua preparazione in materia di stregoneria. Era acriticamente imbevuto della peggiore e più deleteria cultura dell’epoca. Non mi è mai sembrato illuminato dalla luce salvifica del dubbio, meno che mai quando il dubbio poteva condurre al proscioglimento dell’accusata; e ben lo aveva capito la povera Franchetta Borelli, quando disse, tra i tormenti: “Io stringo li denti e diranno che rido”. Sapeva che il commissario avrebbe visto nelle sue mascelle contratte non la sofferenza di un’innocente, ma il ghigno beffardo di una vera strega.
Perché Scribani era così spietato? Forse era sinceramente convinto di agire secondo la volontà di Dio e per il bene della comunità. Ma non è escluso che lui si mostrasse così solerte per fare bella figura agli occhi dei suoi superiori: del doge, per esempio, al quale in una lettera rammentava che le spese per i processi contro le streghe trioresi sarebbero state ampiamente compensate dalle confische dei beni che ne sarebbero conseguite; o del terribile giudice Pietro Allaria-Caracciolo che avrebbe messo volentieri sotto tortura chiunque, e a oltranza, rammaricandosi vivamente che le leggi non glielo consentissero.
Secondo me Scribani era figlio e servo di quel periodo storico: un servo fedele il giusto e stupido il giusto. La sua caduta in disgrazia, il conseguente processo e la successiva assoluzione mi hanno fatto pensare che sia stato usato come capro espiatorio al posto di qualcuno che aveva responsabilità maggiori delle sue, ma anche un prestigio e un potere di gran lunga superiori, e pertanto era intoccabile.
Resta comunque un fatto e cioè che il fanatismo religioso va sempre ben oltre i propositi della fede. Peraltro i processi alle streghe non sono monopolio solo del cattolicesimo, ma sono fioriti anche nel protestantesimo, il che mi induce a pensare che la religione sia solo un pretesto per permettere a uomini tutto sommato deboli di sfogare su altri il loro astio e rancore. In questo libro quasi tutti i personaggi citati sono realmente esistiti, mentre è sicuramente di fantasia il protagonista, innamorato di Magdalena e che cerca di salvarle la vita. Quest’uomo, già condottiero, si batte in uno scontro che già sa perso in partenza, perché conscio che non vi sono armi contro l’ignoranza e la superstizione. E’ pienamente positivo, un precursore per l’epoca, perché sostiene la valenza del dubbio per poter credere, rifiuta il dogma e apre il suo cuore all’amore. Mi chiedo solo perché non ha cercato di usare la forza per liberare Magdalena, lui che valente soldato avrebbe potuto uccidere le poche guardie e aprire le porte della prigione. Ma forse il motivo per cui non l’ha fatto risiede nella complessità di una mente che, benché aperta, crede che esistano le streghe e quindi ha remore di carattere morale che gli impediscono di staccare di netto la testa del serpente con un colpo di spada. E’ così?
In realtà, quando architetta il piano, il mio protagonista è quasi sicuro di vincere: tutti i successi conseguiti nella carriera delle armi lo spingono a credere che anche questa volta avrà la meglio sui “nemici”. Ma questa battaglia vuole combatterla in modo diverso dal solito. Confida molto nella propria astuzia, esattamente come un tempo confidava nella forza della sua spada. Il precipitare degli eventi lo coglie impreparato, lo sgomenta, lo annichilisce. Vede crollare il suo castello di certezze e si scopre vigliacco, inetto: uno sciocco presuntuoso che ha sbagliato tutto. E per la prima volta in vita sua sperimenta il tormento del dubbio e il peso del senso di colpa.
Dici, giustamente, che se avesse adottato la strategia della forza, l’eroe avrebbe potuto salvare la donna amata. Hai ragione. Ma ne sarebbe uscito un libro diverso: un romanzo d’avventura, magari con un bel finale rosa già visto mille volte al cinema. Io invece volevo scrivere un libro sul dolore e sull’amore, ma soprattutto sulla sofferenza che porta la psiche a deragliare, e la accompagna nel tunnel di una quieta, malinconica, consolatoria follia.
E’ vero, ma il cavaliere ha osato sfidare l’irrazionale con la logica, in un dialogo che la controparte non poteva recepire, perché la sicurezza, l’assenza di dubbi è propria di chi non ragiona. Mi viene in mente, al riguardo, una frase di Zenone, il protagonista di L’opera al nero, di Marguerite Yourcenar: “Non esiste accomodamento durevole tra coloro che cercano, pensano, analizzano e si onorano di pensare domani diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto.” Contro simili esseri si può vincere solo con la forza. Comprendo comunque e anche approvo il tuo desiderio di non scrivere un romanzo d’avventure, con il classico lieto fine in cui tutti vissero felici e contenti. Fra l’altro, questo amore che cresce nell’imminenza del pericolo è descritto in modo magistrale, con l’ansia, l’angoscia, la delusione e la disperazione di chi avverte che la propria sconfitta è soprattutto la condanna di una innocente. Sono pagine molto belle, che non muovono alla commozione facile, ma che segnano in profondità il lettore tanto paiono realistiche e in fin dei conti somiglianti a pene d’amore magari avvertite in gioventù. Lì il romanzo si stacca dalla storia dello specifico evento per assurgere a un sentimento universale, a ciò che l’uomo ha sempre provato e si spera continuerà a provare. Fra i personaggi del libro ce n’è qualcuno in cui ti sei maggiormente ritrovata e se sì per quale motivo?
Mentre il romanzo prendeva forma, mi accorgevo di voler bene a tutte queste mie creature immaginarie, ad esclusione ovviamente del commissario Scribani. A tutti i personaggi ho dato qualcosa di mio, distribuendo con prodigalità i miei difetti e le mie debolezze, ma ricordandomi di mettere ogni tanto un tocco gentile, perché anche la dolcezza è nelle mie corde.
Se c’è qualcosa di autobiografico – e penso che in ogni romanzo vi sia – posso dire che mi appartengono in toto i dubbi, lo spavento, il senso di impotenza sperimentati dal protagonista quando crede di avere assistito a un fenomeno soprannaturale. Lo sgomento che lui prova di fronte all’ignoto è il mio smarrimento di fronte a episodi che anche per la scienza moderna sono inspiegabili.
Tornando a cose più lievi, il mio personaggio preferito è il petulante, gioviale, umanissimo notaio Basadonne: miope come una talpa e schietto come un bicchiere di vino, se esistesse davvero ne farei il mio migliore amico.
Ero pressoché sicuro che il tuo preferito fosse il notaio Basadonne, un personaggio che già incontra simpatia con i suoi difetti, acuto osservatore, per quanto miope, onesto e sincero.
Che Scribani non ti fosse simpatico lo si comprende benissimo per come lo descrivi e, considerato che è esistito veramente e così si comportò, è comprensibile questa tua disistima, che è immediata anche nel lettore.
Da buona veneziana, poi, non hai mancato di trovare l’occasione, reale peraltro, per una stoccata al doge di Genova, città marinara tradizionalmente avversaria di Venezia.
Comunque anche il governo della Serenissima può contare su non pochi cadaveri nell’armadio e al riguardo ti chiedo se hai in progetto un romanzo di ambientazione lagunare che prenda spunto da ombre – e ce sono state parecchie – di quella Repubblica.
Nei miei precedenti piccoli romanzi, tutti ambientati nella Serenissima del XVI secolo e in prevalenza ispirati da fatti di cronaca giudiziaria, non sono stata avara di rabbuffi e ceffoni nei confronti di alcuni governanti dell’epoca. Come giustamente dici tu, in laguna ombre e scheletri non mancavano, anzi, abbondavano.
In questi vent’anni ho scritto molto su Venezia: a volte con tenerezza, a volte con rabbia; ma anche quando la mia voce si alzava indignata, in sottofondo una seconda voce veniva a riconciliarmi con la mia città. Così mi veniva voglia di scrivere ancora, e iniziavo la stesura di una nuova storia. Nel cassetto ho tre romanzi “veneziani” pronti per la revisione finale, e un quarto in corso d’opera. So che perseverare è diabolico, ma pur sapendolo, diabolicamente persevero…
Vero, ma ritorniamo al tuo libro per una domanda semplice, ma di non facile risposta. Cosa ne pensi dei rapporti tra stregoneria e religione? In particolare, le streghe sono state l’invenzione di una struttura ecclesiastica che aveva difficoltà a presentarsi decentemente ai suoi fedeli, viziata com’era da tanti peccati al punto di distogliere l’attenzione dagli stessi, balenando un pericolo concreto che fosse di gran lunga più temibile del proprio comportamento?
Anche questa è una domanda difficile. Trovo molto interessante e senza dubbio plausibile la tua ipotesi.
Riguardo al rapporto tra stregoneria e religione, penso che oggi possano credere alle streghe (al malocchio, all’efficacia dei riti woo-doo, alle messe nere ecc.) anche persone dichiaratamente atee. Invece le cose andavano diversamente all’epoca dei fatti narrati nel mio romanzo.
A quei tempi la vita religiosa permeava tantissimo la società: processioni, penitenze, ben precisi divieti alimentari e sessuali, l’obbligo di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno, danno l’idea di quanto fosse forte il potere della Chiesa e il timore della collera divina. Bestemmia, eresia, sodomia e usura erano considerati i reati più sgraditi a Dio e di norma venivano puniti con la pena capitale. Nel “Malleus maleficarum”, il terribile manuale usato dagli inquisitori, si affermava che era eresia non credere alle streghe. Così tutti, per non figurare eretici, dovevano per forza credere alle streghe. E le streghe erano il capro espiatorio ideale per spiegare eventi incomprensibili: siccità, carestie, nascita di animali deformi, malattie, morti di bambini… Tutte le spiegazioni che oggi ci dà la scienza, all’epoca venivano date dalla religione, dall’astrologia, dalla filosofia e da credenze fantasiose e superstiziose.
Per i cristiani Dio è il Bene e il Diavolo è il Male; se si crea una disarmonia da cui consegue una sofferenza per la collettività, è perché il Diavolo sta facendo proseliti e Dio è in collera con noi per questo motivo. Bruciando le streghe (blasfeme serve e concubine del diavolo), si ristabiliva l’iniziale armonia. In linea di massima, la gente era ben contenta di veder accendere i roghi purificatori, tant’è che processi contro le streghe vennero istruiti non solo da tribunali ecclesiastici, ma anche da tribunali civili, e in certi casi si mosse direttamente la stessa collettività, organizzando spontaneamente l’uccisione della strega. L’eliminazione del “diverso, strano, malefico, pazzo o demente che fosse” era accolta non solo con sollievo, ma con gioia. Chiedo scusa se ho semplificato e generalizzato per motivi di brevità.
A Triora inizialmente i processi contro le streghe suscitarono l’approvazione della comunità; quando però la catena di delazioni si allungò in modo spropositato e vennero fatti i nomi anche delle donne ricche e nobili che fino a quel momento si erano ritenute intoccabili, cominciò a serpeggiare il panico. Da qui, la lettera di protesta scritta dai Tre Anziani di Triora al doge di Genova, nella quale si lamentavano del fatto che più di duecento persone fossero già state denunziate e altre lo sarebbero state a breve.
In questo clima di paura, incertezza e reciproco sospetto, prende avvio il mio romanzo.
Mi viene da sorridere quando penso che Dio è il Bene, l’apoteosi della bontà, e poi invece gli uomini lo trasformano in un essere vendicativo, collerico, a loro immagine e somiglianza.
Siamo alla fine dell’intervista con una domanda semplicissima, ma che spesso mette in difficoltà chi deve rispondere. Abbiamo parlato diffusamente di questo tuo bel romanzo, abbiamo messo in luce le sue origini storiche, abbiamo perfino indagato sulla psicologia dei suoi personaggi. Eppure accade sempre che l’intervistato speri sempre che gli venga rivolta una particolare domanda, a cui tiene tanto, ma questa non viene mai. Ti chiedo allora qual è quella domanda che tanto avresti desiderato ti fosse rivolta e nel contempo ti prego di fornirmi la risposta.
Premesso che le domande mi agitano sempre, approfitto di questo spazio per chiarire un punto che mi sta molto a cuore. La domanda non più desiderata, ma più temuta, potrebbe essere questa: che cosa è stato facile e cosa difficile nella stesura del romanzo?
Facilissimo è stato creare la trama, i personaggi, il clima emotivo e il finale.
Ben più difficile è stato impormi di essere rigorosa da un punto di vista storico, giuridico, psicologico e geografico. Così mi sono trovata a un bivio: lasciare il mio racconto libero di muoversi in piena autonomia, come lo avevo sentito crescere in me, oppure mutilarlo, appiattirlo, incanalarlo nella direzione dell’assoluta fedeltà alla Storia? Ho scelto la prima opzione e mi sono concessa qualche licenza. La più macroscopica è avere volutamente esagerato il computo dei roghi accesi a Triora. Va detto che le notizie al riguardo non sono né chiare né esaurienti: è vero che furono centinaia le persone inquisite; è vero che alcune donne morirono in seguito alle torture o in un tentativo di evasione; è vero che di molte altre derelitte si ignora la sorte; ma non esistono prove che a Triora siano stati accesi roghi. Eppure, le leggende parlano di donne arse vive alla Cabotina o in piazza della Collegiata…
Sia pure con qualche titubanza, ho scelto di dare credito a queste leggende. E non solo per la mia innata passione per la cultura popolare, ma anche alla luce del fatto che spesso, alcuni anni dopo una condanna per stregoneria, i familiari chiedevano che gli atti venissero distrutti per non gettare ombre infamanti sulla loro discendenza. In altri casi erano gli archivi a finire, casualmente o deliberatamente, incendiati.
Dunque, piene certezze al riguardo non ne esistono.
Ringrazio Renzo per la generosità e la gentilezza con cui mi ha ospitata, e tutti voi per il tempo che mi avete dedicato.
E’ stata una bella conversazione e Fiorella Borin non si è sottratta a domande anche insidiose, comportamento più che giusto visto che si è parlato di questo suo libro che, ripeto, per me è veramente stupendo. Al riguardo vi prego di leggere anche la mia recensione dalla quale spero possiate comprendere l’interesse che suscita La firma del diavolo.
Grazie Fiorella e arrivederci al tuo prossimo libro.
La firma del diavolo
di Fiorella Borin
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa romanzo
Collana Malacandra
Pagg. 136
ISBN 978-88-7475-182-2
Prezzo € 9,00
Recensione a LA FIRMA DEL DIAVOLO (Renzo Montagnoli)
Biastemo il giorno che me innamorai,
Biastemo il giorno che ti misi amore,
Biastemo il giorno che in te mi fidai,
Biastemo il giorno che ti déi il mio core;
Biastemo il bene ch’io te volsi mai,
Biastemo l’alma mia, che per te more…
E’ l’anno di grazia 1588 e a Triora, un paesino della Valle Argentina, sito nel retroterra di Ventimiglia, corre la paura, c’è la caccia alle streghe, ree di aver fatto mancare la pioggia e di aver ridotto alla fame gli abitanti. Sono giorni di sospetti, di calunnie, di confessioni estorte con la violenza, di nomi di innocenti fatti sotto tortura, con i nuovi incolpati che, per lenire le sofferenze, chiamano in causa altri incolpevoli, in una spirale di crescente terrore. Spadroneggia, forte della sua carica, il commissario Giulio Scribani, feroce persecutore di seguaci del diavolo e fra queste Magdalena, la più bella del paese, amante di un nobile soldato, peraltro coniugato, e che farà di tutto per salvarla dal rogo.
I fatti accaduti in quell’anno sono veri e sono documentati da incartamenti d’epoca e da saggi storici. Pure vero è il commissario Scribani, mentre la vicenda di Magdalena e del suo amante è frutto di fantasia, innestata però con perizia nella realtà degli eventi, al punto di apparire del tutto verosimile.
Fiorella Borin si destreggia abilmente fra realtà e invenzione scrivendo un romanzo, in cui superstizione, fanatismo religioso e amore contribuiscono a costruire una storia di grande interesse e anche di notevole bellezza.
C’è solo follia, la follia della gente ignorante e pavida che soggiace alla volontà della Chiesa tramite le parole del vicario Gerolamo Dal Pozzo che di fatto insinua il sospetto e indica le prove, gli elementi di chi potrebbe essere una strega e trasformando così la paura in terrore; c’è la follia ancor più malvagia di Giulio Scribani, un fanatico che vede intorno a lui solo streghe; e infine c’è la follia di un innamorato che cerca inutilmente di salvare la propria amata.
E per tutto il romanzo arde costante un solo fuoco, quello di un amore che va oltre ogni limite, al punto che, proprio per amore, si può anche dare la morte affinché non si abbia troppo a soffrire.
Lei, rea confessa, la cui assunzione di colpa appare, oltre che inspiegabile, stupefacente, finisce con il diventare la vera protagonista, lei e tutte le donne che nei secoli sono state comodi capri espiatori. Il fuoco del rogo brucia tutto, anche ogni speranza, ma non l’amore e solo dopo, per un caso fortuito, sapremo il perché delle strane parole della confessione, un ulteriore, supremo e sublime atto d’amore.
Così, dopo aver letto e apprezzato due libri concernenti processi di stregoneria (Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, e La chimera, di Sebastiano Vassalli), ho seguito con passione ed emozione questa storia, con un senso di presenza ai crudeli interrogatori, alla disperazione dell’innamorato, sotto un cielo cupo e in un’atmosfera dal pungente lezzo della paura. Presunte streghe, povere donne innocenti sacrificate all’altare della superstizione, volti sconosciuti, ma quello di Magdalena me lo sono immaginato, provato, scavato, ma radioso nell’amore che la sosteneva, questa forza quasi immortale che resta anche dopo povere ceneri.
La firma del diavolo è un romanzo semplicemente stupendo.
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=6769
Biastemo il giorno che ti misi amore,
Biastemo il giorno che in te mi fidai,
Biastemo il giorno che ti déi il mio core;
Biastemo il bene ch’io te volsi mai,
Biastemo l’alma mia, che per te more…
E’ l’anno di grazia 1588 e a Triora, un paesino della Valle Argentina, sito nel retroterra di Ventimiglia, corre la paura, c’è la caccia alle streghe, ree di aver fatto mancare la pioggia e di aver ridotto alla fame gli abitanti. Sono giorni di sospetti, di calunnie, di confessioni estorte con la violenza, di nomi di innocenti fatti sotto tortura, con i nuovi incolpati che, per lenire le sofferenze, chiamano in causa altri incolpevoli, in una spirale di crescente terrore. Spadroneggia, forte della sua carica, il commissario Giulio Scribani, feroce persecutore di seguaci del diavolo e fra queste Magdalena, la più bella del paese, amante di un nobile soldato, peraltro coniugato, e che farà di tutto per salvarla dal rogo.
I fatti accaduti in quell’anno sono veri e sono documentati da incartamenti d’epoca e da saggi storici. Pure vero è il commissario Scribani, mentre la vicenda di Magdalena e del suo amante è frutto di fantasia, innestata però con perizia nella realtà degli eventi, al punto di apparire del tutto verosimile.
Fiorella Borin si destreggia abilmente fra realtà e invenzione scrivendo un romanzo, in cui superstizione, fanatismo religioso e amore contribuiscono a costruire una storia di grande interesse e anche di notevole bellezza.
C’è solo follia, la follia della gente ignorante e pavida che soggiace alla volontà della Chiesa tramite le parole del vicario Gerolamo Dal Pozzo che di fatto insinua il sospetto e indica le prove, gli elementi di chi potrebbe essere una strega e trasformando così la paura in terrore; c’è la follia ancor più malvagia di Giulio Scribani, un fanatico che vede intorno a lui solo streghe; e infine c’è la follia di un innamorato che cerca inutilmente di salvare la propria amata.
E per tutto il romanzo arde costante un solo fuoco, quello di un amore che va oltre ogni limite, al punto che, proprio per amore, si può anche dare la morte affinché non si abbia troppo a soffrire.
Lei, rea confessa, la cui assunzione di colpa appare, oltre che inspiegabile, stupefacente, finisce con il diventare la vera protagonista, lei e tutte le donne che nei secoli sono state comodi capri espiatori. Il fuoco del rogo brucia tutto, anche ogni speranza, ma non l’amore e solo dopo, per un caso fortuito, sapremo il perché delle strane parole della confessione, un ulteriore, supremo e sublime atto d’amore.
Così, dopo aver letto e apprezzato due libri concernenti processi di stregoneria (Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, e La chimera, di Sebastiano Vassalli), ho seguito con passione ed emozione questa storia, con un senso di presenza ai crudeli interrogatori, alla disperazione dell’innamorato, sotto un cielo cupo e in un’atmosfera dal pungente lezzo della paura. Presunte streghe, povere donne innocenti sacrificate all’altare della superstizione, volti sconosciuti, ma quello di Magdalena me lo sono immaginato, provato, scavato, ma radioso nell’amore che la sosteneva, questa forza quasi immortale che resta anche dopo povere ceneri.
La firma del diavolo è un romanzo semplicemente stupendo.
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=6769
venerdì 2 aprile 2010
Novità: LA FIRMA DEL DIAVOLO (Edizioni Tabula fati)
Triora, 1588. Il commissario Giulio Scribani, grazie a testimonianze raccolte sotto tortura, ha fatto incarcerare numerose donne. Nella sua feroce ottusità, è convinto di avere individuato nelle streghe le responsabili della carestia che da due anni flagella la zona. Ma la strega più pericolosa, la favorita del diavolo, colei che addirittura ne conosce la firma, non è ancora finita sul rogo purificatore. Unica a essersi autodenunciata, la bella Magdalena è davvero una strega? E chi le ha suggerito la stupefacente confessione che renderà nel corso dell’ultimo interrogatorio?
In bilico tra realtà e fantasia, ricco di colpi di scena, La firma del diavolo non è solo lo spaccato di un’epoca corrotta da superstizioni e fanatismo religioso, ma è anche un’appassionata, commovente storia d’amore.
Fiorella Borin
LA FIRMA DEL DIAVOLO
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-182-2]
Pagg. 136 - € 9,00
http://www.edizionitabulafati.it/lafirmadeldiavolo.htm
venerdì 12 febbraio 2010
Anteprima: LA FIRMA DEL DIAVOLO (Edizioni Tabula fati)
Triora, 1588. Il commissario Giulio Scribani, basandosi su testimonianze raccolte sotto tortura, ha fatto incarcerare numerose donne. Nella sua feroce ottusità, è convinto di avere individuato nelle streghe le responsabili della carestia che da due anni flagella la zona. Ma la strega più pericolosa, la favorita del diavolo, colei che addirittura ne conosce la firma, non è ancora finita sul rogo purificatore. Unica a essersi autodenunciata, la bella Magdalena è davvero una strega? E chi le ha suggerito la stupefacente confessione che renderà nel corso dell’ultimo interrogatorio?
In bilico tra realtà e fantasia, ricco di colpi di scena, La firma del diavolo non è solo lo spaccato di un’epoca corrotta da superstizioni e fanatismo religioso, ma è anche una dolorosa, toccante storia d’amore.
Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (2003) e quattro brevi romanzi ambientati nella Venezia del Cinquecento: Mir i dobro (2005), La sciarpa azzurra (2005), La congiura degli Olderichi (2007) e Lo scrivano (2007).
Con Tabula fati ha pubblicato Il bosco dell’unicorno (2004), Il pittore merdazzèr (2007) e La strega e il robivecchi (2010), nel quale compaiono alcuni personaggi de La firma del diavolo.
In bilico tra realtà e fantasia, ricco di colpi di scena, La firma del diavolo non è solo lo spaccato di un’epoca corrotta da superstizioni e fanatismo religioso, ma è anche una dolorosa, toccante storia d’amore.
Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, ha pubblicato il romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (2003) e quattro brevi romanzi ambientati nella Venezia del Cinquecento: Mir i dobro (2005), La sciarpa azzurra (2005), La congiura degli Olderichi (2007) e Lo scrivano (2007).
Con Tabula fati ha pubblicato Il bosco dell’unicorno (2004), Il pittore merdazzèr (2007) e La strega e il robivecchi (2010), nel quale compaiono alcuni personaggi de La firma del diavolo.
giovedì 14 gennaio 2010
Recensione a LA STREGA E IL ROBIVECCHI (Renzo Montagnoli)
Fiorella Borin, veneziana trapiantata ormai da tempo in terraferma, sembra di casa a questo concorso (il Premio Tabula Fati) alle cui edizioni partecipa con puntualità, ottenendo lusinghieri risultati, come testimonia il secondo posto nell’edizione 2008 di questo suo racconto (in verità, nel 2009 è andata ancor meglio, vincendo la settima edizione con Christe Eleison).
Narratrice esperta, dotata di uno stile snello, scorrevole, è naturalmente portata alla narrativa storica o di ambientazione storica, come dimostrano Il pittore Merdazzer, secondo nell’edizione 2006, e anche Il bosco dell’unicorno, pure secondo nel 2003.
Fiorella Borin ha la capacità di essere accattivante inserendo in contesti storici degli elementi fantastici, così che sempre riesce a dare forma a un’originalità che non può che sorprendere piacevolmente il lettore.
Anche con La strega e il robivecchi, una vicenda da epoca di Santa Inquisizione, ricrea abilmente la vita di un borgo, Triora, a suo tempo famoso per le streghe, senza che però il periodo storico sia esattamente identificabile. Eppure la grande carestia, le superstizioni, la miseria, l’amore offerto e quello bramato finiscono con il fornire un convincente quadro in cui a fianco di due personaggi che hanno tutta l’apparenza di essere reali (il robivecchi Bigiarino e il riuscitissimo notaio Basadonne), si profilano dapprima, per poi concretizzarsi in modo del tutto naturale nella vicenda, elementi che sono propri del fantastico.
E’ dalla superstizione che condanna al rogo le presunte streghe che emerge, in modo sottile, la creatività dell’autrice, capace di rendere credibili fatti e soggetti che la nostra logica tende a considerare frutto di fantasia.
Del resto l’inquisizione c’era per debellare le adepte di Satana, quasi sempre vittime di calunnie, oppure povere pazze; e se il tribunale religioso credeva all’esistenza delle streghe, per quale motivo questa convinzione non avrebbe dovuto entrare nella modesta, per dire inesistente cultura del popolo?
Così la vicenda di Bigiarino, innamorato in silenzio di Isotta la Bella, finita poi sul rogo, trova quel substrato di plausibilità che riesce a convincere e ad avvincere il lettore su una domanda che alla fine per forza si pone: sono solo superstizioni?
Fresco e spumeggiante come un vino novello questo è un racconto che merita senz’altro di essere letto.
Narratrice esperta, dotata di uno stile snello, scorrevole, è naturalmente portata alla narrativa storica o di ambientazione storica, come dimostrano Il pittore Merdazzer, secondo nell’edizione 2006, e anche Il bosco dell’unicorno, pure secondo nel 2003.
Fiorella Borin ha la capacità di essere accattivante inserendo in contesti storici degli elementi fantastici, così che sempre riesce a dare forma a un’originalità che non può che sorprendere piacevolmente il lettore.
Anche con La strega e il robivecchi, una vicenda da epoca di Santa Inquisizione, ricrea abilmente la vita di un borgo, Triora, a suo tempo famoso per le streghe, senza che però il periodo storico sia esattamente identificabile. Eppure la grande carestia, le superstizioni, la miseria, l’amore offerto e quello bramato finiscono con il fornire un convincente quadro in cui a fianco di due personaggi che hanno tutta l’apparenza di essere reali (il robivecchi Bigiarino e il riuscitissimo notaio Basadonne), si profilano dapprima, per poi concretizzarsi in modo del tutto naturale nella vicenda, elementi che sono propri del fantastico.
E’ dalla superstizione che condanna al rogo le presunte streghe che emerge, in modo sottile, la creatività dell’autrice, capace di rendere credibili fatti e soggetti che la nostra logica tende a considerare frutto di fantasia.
Del resto l’inquisizione c’era per debellare le adepte di Satana, quasi sempre vittime di calunnie, oppure povere pazze; e se il tribunale religioso credeva all’esistenza delle streghe, per quale motivo questa convinzione non avrebbe dovuto entrare nella modesta, per dire inesistente cultura del popolo?
Così la vicenda di Bigiarino, innamorato in silenzio di Isotta la Bella, finita poi sul rogo, trova quel substrato di plausibilità che riesce a convincere e ad avvincere il lettore su una domanda che alla fine per forza si pone: sono solo superstizioni?
Fresco e spumeggiante come un vino novello questo è un racconto che merita senz’altro di essere letto.
Renzo Montagnoli
sabato 2 gennaio 2010
Novità: LA STREGA E IL ROBIVECCHI (Edizioni Tabula fati)
Bigiarino è un robivecchi giovane e prestante, dotato di un’intelligenza vivida e una loquacità inarrestabile. Per riuscire a smerciare le sue carabattole, gira di paese in paese seminando frottole e rivolgendo frasi galanti a tutte le donne che si accostano al suo bizzarro carretto. E tutte lo trovano irresistibile tranne una, la più bella, la sola che lui ami davvero, l’unica capace di ammutolirlo: la misteriosa Isotta, la cui morte darà avvìo a una serie di eventi imprevedibili e raccapriccianti.
Ambientato in una Triora scaturita più dalle leggende nere che dalla nuda realtà storica, La strega e il robivecchi racconta superstizioni e inganni, doni all’apparenza innocenti e perfidi accordi, umana tenerezza e sortilegi diabolici, spietate condanne a morte e un amore che va oltre il fumo dei roghi voluti dalla Santa Inquisizione.
Fiorella Borin
LA STREGA E IL ROBIVECCHI
Racconto Secondo classificato al Premio Tabula fati 2008
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-178-5]
Pagg. 64 - € 5,00
http://www.edizionitabulafati.it/stregaerobivecchi.htm
venerdì 14 marzo 2008
Recensione a IL PITTORE MERDAZZÈR (Renzo Montagnoli)
Secondo classificato alla quarta edizione del premio letterario “Tabula Fati” 2006, questo racconto conferma le capacità di narratrice di Fiorella Borin, autrice veneziana piuttosto nota e in possesso di una tecnica per niente trascurabile.
Ciò che stupisce in questo libro è la capacità - pur a fronte di una vicenda nel complesso non particolarmente originale - di avvincere il lettore con un ritmo incalzante, sostenuto da un’ironia che a tratti si trasforma in vero e proprio umorismo.
Non dirò nulla della trama per non togliere il gusto della lettura, ma mi preme sottolineare in questa sede come l’intento della scrittrice sia quello di mettere alla berlina certi faciloni, peraltro non rari, che ambiscono al prestigio pur non avendone le indispensabili capacità.
Per il resto è una piccola commedia degli equivoci ben sorretta dalla mano esperta della Borin che la conduce fino in fondo senza incorrere in cadute di stile o anche di dubbio gusto, considerato a che si riferisce il merdazzèr del titolo.
E’ una lettura, quindi, agevole e senz’altro divertente.
Renzo Montagnoli
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&c=&det=3343&valRcc=ZmlvcmVsbGEgYm9yaW4=
Ciò che stupisce in questo libro è la capacità - pur a fronte di una vicenda nel complesso non particolarmente originale - di avvincere il lettore con un ritmo incalzante, sostenuto da un’ironia che a tratti si trasforma in vero e proprio umorismo.
Non dirò nulla della trama per non togliere il gusto della lettura, ma mi preme sottolineare in questa sede come l’intento della scrittrice sia quello di mettere alla berlina certi faciloni, peraltro non rari, che ambiscono al prestigio pur non avendone le indispensabili capacità.
Per il resto è una piccola commedia degli equivoci ben sorretta dalla mano esperta della Borin che la conduce fino in fondo senza incorrere in cadute di stile o anche di dubbio gusto, considerato a che si riferisce il merdazzèr del titolo.
E’ una lettura, quindi, agevole e senz’altro divertente.
Renzo Montagnoli
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&c=&det=3343&valRcc=ZmlvcmVsbGEgYm9yaW4=
lunedì 2 aprile 2007
Novità: IL PITTORE MERDAZZÈR (Edizioni Tabula fati)
Anno Domini 1574. Costantino Ritsos, diciottenne greco di belle speranze, sbarca a Venezia con il sogno di entrare come apprendista nella bottega di Tiziano Vecellio. Ma il destino beffardo gli concede solo un maleodorante posto di merdazzèr, ovvero di netturbino. Anziché arrendersi alla malasorte, l’ingenuo Costantino continua a esercitarsi con pennelli e colori, convinto che prima o poi la gloria busserà alla sua porta. Nella cornice di una Venezia popolata di personaggi picareschi — dal marinaio Cristoforo all’inquietante sartina Genziana, alla nasuta suor Maria Euserbia Contarini fino a Semiramide regina dei ciarlatani — il protagonista vivrà avventure esilaranti, ma dovrà fare i conti con una realtà che non premia (e non perdona) gli sprovveduti.
Fiorella Borin
IL PITTORE MERDAZZÈR
Racconto Secondo classificato al Premio Tabula fati 2006
Copertina di Alice Burattini
Edizioni Tabula fati
[ISBN-88-7475-113-3]
Pagg. 48 - € 4,50
http://www.edizionitabulafati.it/pittoremerdazzer.htm
lunedì 1 marzo 2004
Novità: IL BOSCO DELL'UNICORNO (Edizioni Tabula fati)
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